Semiramide, unico melodramma composto nel 1823, si presenta come una suprema summa dell’opera rossiniana italiana. Probabilmente essa è la più alta prova di forza compiuta da Rossini: era, innanzitutto, un’opera con un soggetto altamente impegnativo; era necessario che il Maestro riuscisse ad obliare quella predominante vena comica che era stata la sua gloria ed il suo martirio. In ultimo è da sottolineare che la drammaticità del soggetto esigeva un uso controllato di quella pratica ormai secolarizzata che erano i virtuosismi. Rossini pose rimedio a questa necessità scrivendo egli stesso ogni singola nota di ogni singolo gorgheggio, evitando così che i cantanti storpiassero l’immensa interiorità di questa tragedia per il solo scopo di pavoneggiarsi. In Semiramide i virtuosismi canori abbondano per due motivi: il primo è che la prima interprete della regina assiro-babilonese fu quella stessa Isabella Colbran che Rossini aveva sposato da poco più di un anno. Nella sua “Vie de Rossini” Stendhal definisce la Colbran come una grande interprete di Semiramide: «Era una bellezza del tipo più imponente: lineamenti marcati che sulla scena risultano magnifici, una figura splendida, occhi di fuoco alla circassa, una foresta di capelli del più bel nero corvino, infine il temperamento tragico». Il secondo motivo, che giustifica una certa abbondanza di virtuosismi, nasce da un carattere che potremmo definire “climatico”, poiché l’ambientazione dell’opera si staglia in un mondo fastoso e lussureggiante così lontano nel tempo da essere quasi fantastico. Questi arabeschi virtuosistici controllati si fondono alla perfezione con l’elemento espressivo del dramma.