Tra tutti gli aggettivi che vengono in mente parlando di opera e musica classica in senso lato difficilmente penseremmo al termine “popolare”. Nel numero di settembre di OperaLife abbiamo parlato della componente attuale che l’opera presenta, comparendo nella nostra vita di tutti i giorni sotto le più particolari spoglie, raggiungendo con metodo capillare una grandissima fetta di popolazione, più o meno consapevole. Nell’articolo di questo magazine, invece, parleremo di un’altra caratteristica, un po’ meno poetica, intrinseca nel genere operistico fin dalla sua stessa nascita: la natura economico-consumistica. La nostra visione distaccata e analitica della musica colta ci impedisce infatti di rintracciarne l’origine reale. L’opera si presenta, infatti, come un prodotto artistico di consumo, pensato e creato specificatamente per il sistema imprenditoriale del teatro.

Le composizioni di secoli or sono – e l’opera ne è probabilmente l’esempio più eclatante – nacquero in moltissimi casi per eventi specifici e momenti particolari. Non a caso la scrittura musicale poteva subire numerosi tagli e cambiamenti in base alle diverse occasioni di esecuzione, alle risorse musicali e canore disponibili e persino al luogo stesso della rappresentazione.

I compositori erano estremamente consapevoli di questo meccanismo, riuscendo a intervenire non solamente sulla ripresa di alcune opere già debuttate in diverso contesto, ma ponendo la possibilità di cambiare le composizioni stesse come punto di partenza della scrittura originale, mettendo in conto eventuali modifiche e riutilizzi degli stessi materiali.

Se nel ventunesimo secolo il nostro modo di vivere la musica si basa sul consumismo della ripetizione, ascoltando e riascoltando senza limiti la musica che più ci piace, nel Settecento e nell’Ottocento vigeva un altro tipo di esperienza musicale, legato principalmente al momento stesso dell’ascolto dal vivo.

 

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