Tutto esaurito per le dieci recite appena terminate al Teatro alla Scala di Milano per “Il Lago dei Cigni” nell’ormai storica versione firmata da Rudolf Nureyev. È popolarmente il balletto classico per antonomasia, che sempre assoggetta un grande richiamo di pubblico. Il grande classico tchaikovskiano – che accomuna i sogni di bambini, ragazzi, adulti, anziani – era assente alla Scala dal luglio 2017. Si trattava però della versione quasi filologica riallestita da Alexei Ratmansky, che aveva debuttato al Piermarini l’anno precedente. Quella di Nureyev, annullata nel 2020 a causa della pandemia, è stata recuperata quest’anno dopo nove anni di assenza. Creato originariamente nel 1984 per l’Opéra di Parigi, quando il coreografo ne era il direttore, questo balletto ebbe vita difficile. I danzatori parigini erano molto legati alla versione di Vladimir Bourmeister, solo in pochi erano disposti a danzare quella proposta dal loro direttore, molti dettero luogo a uno sciopero. Oggi, siamo quasi tutti d’accordo nell’affermare che, oggettivamente, sia una delle produzioni meno riuscite di Nureyev. Sovrastano effettivamente momenti di amusicalità o sequenze inutilmente intricate che mettono a dura prova anche il danzatore tecnicamente più brillante. Alcune trovate drammaturgiche possono apparire ancora discutibili, come l’incoronazione del principe.

Il décor concepito dal compianto Ezio Frigerio si compone di pilastri a fascio come quelli della abbazie francesi tardogotiche, con fondali che però richiamano le tele impressioniste di Monet, quali la Cattedrale di Rouen e le ninfee di Giverny. Come ricorda la moglie Franca Squarciapino – eccezionale costumista anche in questo allestimento -, Rudy voleva inserire troppi elementi sconnessi fra loro ed era ruolo (o responsabilità) di Frigerio riuscire a dare una continuità a tutto l’insieme.

 

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