Alcuni mesi dopo l’enorme successo ottenuto da “La Sonnambula” Bellini fu chiamato a comporre la nuova opera d’apertura della stagione scaligera del 1831. La primadonna c’era già, era quella stessa, divina, Giuditta Pasta che aveva dato vita e voce ad Amina, a Corinna ed Arsace, per citarne alcuni. Il soggetto doveva essere particolarmente adatto alla sua vocalità, al gusto del pubblico ma allo stesso tempo il bel catanese voleva qualcosa che gli desse la possibilità di rompere con la “solita forma”. La scelta cadde su “Norma ou l’Infanticide” di A. Soumet, tragedia in 5 Atti andata in scena il 6 aprile 1831 al Teatro dell’Odéon di Parigi.
Il Romani ebbe non poco da lavorare per adattare il testo di Soumet ai desideri di Bellini (basti pensare solo pensare alle nove versione che dovette scrivere di “Casta Diva” prima di arrivare alla stesura definitiva). Ne uscì un lavoro che condensava in sé, oltre alla tragedia omonima, la “Medea” di Euripide e “Les Martyrs” di Chateubriand. Era ben noto che la Pasta, con le sue origini da mezzosoprano instradate poi su una vocalità di soprano, fosse decisamente a suo agio in parti drammatiche, permeate di gesti e passioni spudoratamente umane. Quella di Norma è una vocalità nuova, quasi anomala. La scrittura musicale che Bellini applica in quest’Opera è costruita su un nuovo tipo di voce, il “soprano drammatico d’agilità”. È un canto che sa esprimere contemporaneamente le appassionate melodie di un soprano di agilità e la maestosa declamazione del soprano drammatico, il tutto senza abbandonare quel virtuosismo che era la gloria di ogni vera primadonna dell’epoca e gioia del cuore dello spettatore.
Era il personaggio a richiedere tutto questo? Era desiderio del compositore quello di fondere in un’unica donna tutta questa forza d’espressione? Erano entrambe le cose. Il tema della sacerdotessa spergiura era un soggetto non affatto nuovo se si guarda alla “Medea” di Spontini o alla “Sacerdotessa d’Irminsul” (entrambe su libretto dello stesso Romani).