Alla musica è sempre stata riconosciuta una grande particolarità rispetto alle arti visive. Scultura, pittura, architettura hanno nei secoli dominato l’ambito dello spazio, sviluppando le proprie opere d’arte in modo tridimensionale all’interno di esso. La musica invece, pur essendo spesso confrontata strettamente con le arti figurative, ha trovato la sua connotazione nel dominio del tempo.
Le note riecheggiano senza uno spazio prestabilito, estendendosi senza una meta precisa, occupando la totalità dell’ambiente che hanno a disposizione. Eppure, nonostante la bellissima abilità della musica di espandersi nello spazio e di investire di suono la platea, la dimensione nella quale la musica non ha arti rivali è quella del tempo.
Ogni frase musicale prevede una propria temporalità, un tempo di esecuzione e una ricezione da parte dell’ascoltatore immediata. In questo modo, la musica non può prescindere dalla dimensione temporale, che diviene un fattore essenziale per comprendere e apprezzare ciò che si sta sentendo.
Questa però si potrebbe definire una caratteristica innata della musica, spontanea e inevitabile. Degno di nota è l’abilità dei grandi compositori di utilizzare questo sviluppo temporale per giocare tra i diversi piani della narrazione musicale, spostandosi tra passato, presente e futuro.
Proprio per la natura evocativa della musica, un compositore accorto e capace – come sono stati i grandi del passato – riesce a plasmare la sfera temporale della narrazione, suggerendo melodie di tempi diversi. Vengono così ricostruiti ricordi, memorie, rievocazioni, lutti, momenti del passato, ma anche previsioni, presagi e speranze future.
Uno degli esempi più efficaci di questa tecnica compositiva, strutturata su più piani dell’azione è data dall’opera più rappresentata ancora oggi nel ventunesimo secolo: sto parlando della Traviata, l’opera di Giuseppe Verdi del 1853.