Il Teatro Regio di Torino ha chiuso quest’anno la propria stagione con il Macbeth di Giuseppe Verdi, una delle opere che preferisco in assoluto, tra le più innovative, interessanti, ricche e complesse mai scritte.
La prima composizione risale al 1847 e stupisce per la modernità della partitura e dei temi trattati. Rispetto alla maggioranza delle opere del XIX secolo infatti, il dramma amoroso classicamente concepito non è presente; i protagonisti non sono il tenore ed il soprano lirico o di coloratura, bensì un baritono ed un soprano drammatico di agilità. Verdi non ci racconta la storia di due amanti ostacolati dalle proprie famiglie rivali, bensì delinea una trama di conflitti psicologici, di coscienze tormentate e di bramosia di potere che porta alla pazzia, all’annientamento e alla morte. Le tinte sono fosche, dominano sangue, violenza e soprannaturale.
Fu un’opera molto amata dal compositore, che infatti la riprese e migliorò nel 1865; egli amava molto Shakespeare, e dall’incontro con questo poeta sono nati i suoi più grandi capolavori: Macbeth, Otello e Falstaff.
I protagonisti principali sono Macbeth, la sua consorte, ed il coro delle streghe, rappresentazione quest’ultimo delle malvagità e delle paure umane. Mi sono spesso soffermata ad analizzare la coppia regale. Essi incarnano due solitudini che vanno avanti parallele, ognuno per la propria strada. C’è una frase nel libretto, che la Lady rivolge al marito, che testimonia il logorio di un rapporto, la lontananza instauratasi tra i due. Dopo la seconda profezia delle streghe, il re, istigato dalla Lady, decide di sterminare Macduff e la sua famiglia e la donna gli rivolge questa frase: “Or riconosco il tuo coraggio antico!”. Quindi un tempo egli era diverso, qualcosa è cambiato, si è rotto tra i due. Pensate all’incipit dell’aria d’entrata della Lady “Vieni! T’affretta! Accendere vo’ quel tuo freddo core! L’audace impresa a compiere io ti darò valore”.
Sicuramente il germe dell’omicidio è presente in Macbeth fin dall’inizio, “Pensier di sangue, donde sei nato?” dirà dopo la prima profezia delle streghe, ma è la donna la vera incarnazione del male, colei che richiama gli spirti infernali: “Or tutti sorgete ministri infernali”. E’ lei freddamente a chiedere al marito di uccidere il Re Duncano e di farne ricadere la colpa sulle sue guardie: “Il pugnal là riportate…Le sue guardie insanguinate… che l’accusa in lor ricada” e successivamente di eliminare Banco e tutta la sua stirpe.
Il marito come lei stessa lo definisce “Ambizioso spirto tu sei, Macbetto… Alla grandezza aneli, ma sarai tu malvagio?” è indiscutibilmente da lei sedotto. Già dopo il primo omicidio è preso dal terrore, e dopo l’uccisione di Banco sprofonda nella pazzia vera e propria, cominciando ad avere le visioni durante la famosa scena del banchetto. Egli ha rimorsi eppur non si pente. La bramosia del trono è troppo forte, tanto quanto la sua corsa verso l’annientamento. È il potere che corrompe.
La figura più interessante a questo proposito è la Lady: “O voluttà del soglio! O scettro, alfin sei mio; ogni mortal desìo tace e s’acqueta in te” in lei la volontà di arrivare sembra incrollabile, la sua determinazione nell’eliminare chiunque intralci il suo cammino anche, eppure… eppure è lei che alla fine crolla. Il marito dopo l’annuncio della morte della consorte torna a combattere, va incontro al suo destino, lei soccombe alla pazzia.
La scena del sonnambulismo è forse la più famosa di tutta l’opera nonché la più innovativa. Fino a quel momento infatti la pazzia era sempre stata descritta con virtuosismi vocali impressionanti, pensiamo alla Lucia di Lammermoor o all’Elvira dei Puritani; qui Verdi invece opta quasi per un mormorio e lascia pochi spazi al canto spiegato, pochi guizzi sono regalati al soprano per emergere. La recitazione è fondamentale. Ed è stato lo stesso compositore a fornire le indicazioni ai cantanti: l’immobilità completa del corpo e del viso, solamente il gesto delle mani che cercano di pulirsi dal sangue macchiatosi.
La donna forte, ambiziosa e spietata, cede. In un attimo crollano tutte le sue certezze, la colpa appare indelebile: ”Di sangue umano sa qui sempre… Arabia intera rimondar sì picciol mano co’ suoi balsami non può”.
È proprio questo aspetto della vicenda che mi ha sempre affascinato, fatto riflettere ed inquietato maggiormente. Perché? Mi chiedo. Cosa porta una roccia a sgretolarsi improvvisamente? Esiste sicuramente un limite di sopportazione. Anche le persone più granitiche ad un certo punto non resistono alla pressione, e la loro disfatta è immediata e definitiva. Indietro non si torna.
In fondo alla riflessione però, ci accompagnano Verdi ed i suoi librettisti, che riprendono i famosi versi di Shakespeare: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”.
Macbeth, prima di partire incontro al suo destino pronuncia questa frase: ”La vita!… Che importa?… È il racconto d’un povero idiota! Vento e suono che nulla dinota!”
L’opera, dopo il mite successo iniziale, è quasi sparita dai cartelloni dei teatri italiani, fino al dopoguerra, quando fu rilanciata da La Scala di Milano nel 1952, interprete la Callas diretta da De Sabata. Da allora essa è rientrata a far parte del nostro repertorio, giustamente rivalutata.
Qui ne trovate una versione storica, interpreti Cappuccilli e l’immensa Verrett, diretti da Abbado: http://vinyladdicted.it/it/opera/1197-macbeth.html
Buon ascolto!
Samuela Solinas