Le sovrastrutture dell’inconscio nella limpida visione di Livermore.

07/12/2021

Ad un anno esatto dal “…riveder le stelle” ed alla sua quarta inaugurazione scaligera, l’influente regista dai natali sabaudi si trova ad affrontare una serie di sfide interessanti e che si riveleranno essere decisamente alla sua portata. Prima di esse è il dover dar vita ad una partitura monumentalmente complessa, la cui gestazione Verdi stesso ebbe tra le mani per circa venti anni. L’opera, magistralmente diretta dal M° Chailly nell’espressione del suo dramma musicale, è la versione che Verdi presentò nel 1865. È uno spartito carico di tensioni emotive sempre al limite. Non è questo il luogo per una dissertazione sulla messa in opera di «Macbeth» da parte di Verdi poiché altri e più illustri di me hanno provveduto ad affrontare la questione (a tal proposito suggerisco la lettura di «Shakespeare e il melodramma romantico», ad opera del caro amico, docente e giornalista Fabio Vittorini. Lo studio della citata è stato per me faro per la comprensione di questa e di altre opere). Dalla messa in scena Livermoreiana è emersa la volontà, sempre soggettivamente scrivendo, di dar voce ad un inconscio troppo spesso messo a tacere dalla morale. Cosa in realtà ha messo in moto gli eventi ai quali siamo stati testimoni? È stata la profezia del primo coro delle streghe scaligere, l’eccitazione di Macbetto per il nuovo titolo nobiliare o la prospettiva di un più alto soglio? Probabilmente nessuna delle tre. Quello che Livermore estrapola, plasma, costruisce, avendo tra le mani spartito e libretto, è frutto della deformazione della realtà e della parola così come ci viene rivelato nel largo recitativo che anticipa la cavatina di Lady Netrebko e nella cavatina stessa. Partendo da questa premessa legare la regia ad un preciso luogo o epoca sarebbe stato frustrante, demoralizzante, inibente. La scelta di Graham Vick nel lontano 07.12.1997 fu la sintesi. Livermore sceglie la libertà di azione e pensiero, nel bene e nel male. Tutto è compenetrazione, dinamica, continua mutazione. Ad un’analisi superficiale questo «Macbeth» poteva risultare “la solita cosa”, “troppo confusionaria”, “sembra Attila tale e quale” (voci di corridoio da me stesso purtroppo ascoltate e riportate). La sottile ed immensa capacità registica di Livermore sta proprio in questo suo andare oltre la superficie rimanendo sempre fedele a ciò che è, sempre uguale ma, allo stesso tempo, sempre diverso e camaleontico. Le scene di Giò Forma, le luci di Antonio Castro ed i video D-Wok seguono coerentemente la contraddittorietà di un’opera che è tale per sua natura primigenia. Menzione a parte per i costumi di Gianluca Falaschi. Le palette e le forme scelte per le streghe ed i cori rendono questi elementi fusi e, contemporaneamente, distaccati dall’architettura scenica. Di matrice couture il meraviglioso costume indossato da Anna Netrebko durante la scena del brindisi, le cui forme rimandano a Galliano per Christian Dior nel 2007. l’airone dorato, simbolo indiano di malvagità, vola sul mare rosso di sangue, tanto grande che neanche l’intero Oceano potrà lavare. Il cast si rivela perfettamente all’altezza del ruolo e della regia. Le capacità attoriali della diva di questa sera, unite alla sua grande vocalità e alla controllata e matura duttilità emotiva, hanno convinto anche i più accaniti loggionisti, nostalgicamente legati alle sole Callas e Guleghina (scaramanticamente la Netrebko stasera indossava il collier che la Callas portava nel grande successo scaligero della «Anna Bolena» del ’57). Luca Salsi è protagonista maschile indiscusso, un grande Macbetto che riesce a tramutare vocalmente quella complessità di atteggiamenti così ardentemente voluti da Giuseppe Verdi. Meli ed Abdrazakov mostrano il lato buono della tragedia e di essa ne sono pedina e vittima. Meli è un eroico Macduff che si lascia trasportare dalla grande marea straziante del lutto, rivelando la sua parte migliore in “Ah, la paterna mano”, preparato da quel sublime grido patriottico che è “Patria oppressa!”. L’ombra di Banco riempie l’intera platea della Scala nella IV scena del II Atto, ingombrando di tristezza l’animo di tutti. Menzione vocale meritano anche Chiara Isotton ed Iván Ayón Rivas. La dama di Lady Macbeth e spalla di Anna Netrebko è un ruolo secondario e spesso sottovalutato ma che emotivamente (e a volte vocalmente) rafforza la primadonna. La Isotton dimostra indipendenza e sicurezza senza sentire il peso e l’ingombro vocale della sua vicina. Rivas è un Malcom giovane, principe dal timbro squillante e belcantistico che probabilmente sarebbe stato scelto dallo stesso Verdi per quel ruolo. Unica nota dolente i mimi di Daniel Ezralow, salvati in calcio d’angolo dalla Netrebko che si unisce a loro quasi come una menade danzante in preda alle allucinazioni, preludio isterico al Sonnambulismo, centro emotivo del suo ruolo. Un 07 Dicembre di alto livello, che conferma le aspettative degli intenditori e accontenta gli amatori. Un «Macbeth» che nella sua lugubre luce riapre la speranza alla vita e alla cultura così come esternato dal pubblico nei lunghi, meritati minuti di applausi rivolti al presidente della Repubblica Mattarella, prima, e a tutta la Scala, poi. Viva l’Italia, Viva Verdi.

Maurizio Meandro