Quando si va a teatro, il pubblico lo sa, o dovrebbe saperlo, si fa un patto con l’illusione. Tutto ciò che vedrà è sì magia ma, soprattutto, è il frutto dei pensieri e dei sogni dell’essere umano che in quella grande scatola vuota, pronta da riempire, prende vita.
È un tacito accordo con Dio, che per una manciata d’ore catapulterà ogni avventore in una dimensione lontana, creando così una porta che possa permettere di evadere dal ritmo frenetico della vita, privata sempre più di emozioni, colpi di scena, cavalli e riflettori. Mondi lontani ma pur sempre paralleli che spesso dovrebbero incontrarsi e aprirsi l’uno all’altro.
Ma chi sono i maghi che rendono possibile tutto questo? Sono persone come noi, solo che raramente le vedremo.
Sono tutte le maestranze che per tre ore di spettacolo agiscono nel buio e nel silenzio delle quinte e del retropalco, muovendosi come spettri benigni per poter dare forma alla grande bellezza acquistata. I cantanti rappresenteranno tutto di loro, anche i dettagli più impercettibili, come un trucco studiato che spesso da lontano non si potrà vedere ma che, in molti casi, sarà funzionale per essere percepito a distanza e non da vicino.
Il pubblico ha un compito molto semplice: arrivare puntale a teatro, sedersi e godersi lo spettacolo senza doversi accorgere o preoccupare di ciò che sta per succedere ma che ancora non si vede.