Qualche giorno fa mi apprestavo ad assistere al mio primo Trittico di Puccini. Essendo una verdiana sfegatata, devo ammettere di non essermi mai avvicinata prima a queste opere in teatro, preferendone senza alcun dubbio altre. Mi era stata data l’occasione di ascoltarlo per intero: Il TabarroSuor Angelica e Gianni Schicchi al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena e non ho potuto resistere alla tentazione.

Mi avvicinavo quindi a quel pomeriggio di musica conoscendo poco le opere in questione, fatta eccezione per le trame; solamente il famosissimo duetto d’amore del Tabarro “O Luigi! Luigi!..” ed un paio di arie del Gianni Schicchi, tra le quali il conosciutissimo “O mio babbino caro”. Detesto non essere perfettamente preparata prima di andare a teatro, ma purtroppo il mio lavoro attualmente mi assorbe a tal punto da non lasciarmi momenti liberi.

Ero ignara di ciò che mi attendeva, pronta a godere di quelle composizioni di Puccini per la prima volta dal vivo. Ora, ad esperienza compiuta, posso solo affermare con assoluta fermezza che prima di accingersi a tale esperienza si dovrebbe leggere una sorta di “Avvertenze per l’uso”, un bugiardino insomma, come quello allegato ai farmaci, che spieghi modalità e tempi di somministrazione ma, soprattutto, che elenchi gli effetti collaterali. Già, perché le conseguenze sono state inimmaginabili.
Dalle prime battute del duetto del Tabarro avevo gli occhi lucidi. L’eros e la passione di quella musica arrivavano dritte come frecce, scuotevano i nervi. Tutta la smania amorosa, il desiderio di possesso esclusivo dell’essere amato sono nelle note e nelle parole del libretto:

Folle di gelosia!
Vorrei tenerti stretta
come una cosa mia!
Vorrei non più soffrire
che un altro ti toccasse,
e per sottrarre a tutti
il corpo tuo divino,
te lo giuro, non tremo
a vibrare il coltello
e con gocce di sangue
fabbricarti un gioiello!

E’ chiara la sofferenza degli amanti, che non possono essere esclusivamente l’uno per l’altra; ma forse è proprio questo divieto ad acuirne i sensi, a far loro approfittare di ogni istante di solitudine. “Par di rubare insieme qualche cosa alla vita!” La voluttà è più intensa tra spasimi e paure, grida soffocate e parole sommesse, tra baci senza fine, promesse e giuramenti di ritrovarsi un giorno soli, lontani dal mondo e da tutti. Conosco perfettamente quelle sensazioni per averle provate, per anni interi. Ne conosco l’intensità ed il logorio che possono portare; ma non ero preparata a vederle rappresentate, interpretate e denudate su un palcoscenico. Se il teatro, e l’Opera in particolare, hanno un effetto catartico, quel pomeriggio ne è stato il più alto esempio.

SuorAngelica

Ed il peggio doveva ancora arrivare. Dovevo ancora ascoltare Suor Angelica e la sua devastante aria “Senza mamma”. Vi avverto, non andate ad assistere a quest’opera se siete particolarmente sensibili, ne uscireste distrutti. Così è successo a me.

Piangete regolarmente nel finale de La Bohème e di Madama Butterfly? Bene, queste due opere sono nulla in confronto alla straziante Suor Angelica.

Alla povera donna viene strappato il figlio alla nascita, perché frutto di un amore colpevole, e la ragazza viene chiusa in convento dove per sette anni non riceve più notizie della sua famiglia, né della creatura che aveva messo al mondo.

Quando finalmente una vecchia zia va a farle visita, il responso è terribile: il bambino è morto di malattia. Alla povera infelice non resta che suicidarsi per raggiungere il piccolo in Paradiso, e chiedere grazia alla Madonna per il suo peccato mortale.

Senza mamma,
bimbo, tu sei morto!
Le tue labbra
senza i baci miei,
scoloriron
fredde, fredde!
E chiudesti,
bimbo, gli occhi belli.
[…]E tu sei morto
senza sapere
quanto t’amava
questa tua mamma!
Ora che sei un angelo del cielo,
ora tu puoi vederla la tua mamma,
tu puoi scendere giù pel firmamento
ed aleggiare intorno a me ti sento.
Sei qui, baci e m’accarezzi.
Ah! dimmi, quando in cielo potrò vederti?
Quando potrò baciarti?
O dolce fine d’ogni mio dolore,
quando in cielo con te potrò salire?
Quando potrò morire?

trittico

All’artista, alla donna e probabilmente alla madre, che deve cantare ed interpretare quest’aria va tutta la mia stima. Francamente non so come sia possibile farlo senza cedere ad un pianto a dirotto. Solamente una grande professionalità può renderlo possibile.

Io non sono madre, ma vi assicuro che è stata un’esperienza devastante. Ho pianto tutto il tempo, dalla prima all’ultima nota; e non erano lacrime timide e sommesse, erano veri e propri lacrimoni di disperazione ed ho dovuto trattenere i singhiozzi. La mia amica Alessandra seduta accanto a me è rimasta sconvolta, non mi aveva mai visto così. Ma non ho potuto evitarlo. Nessuno mi aveva preavvertito, non sapevo ciò che mi attendeva e Puccini mi ha preso alla sprovvista.

Ora che lo so, questa opera entrerà a far parte di quella lista di lavori da ascoltare con moderazione, elenco di cui fanno parte, tra gli altri, l’immortale Eugene Onegin ed il Concerto per violino ed Orchestra n.35 di Tschaikowsy. Attenzione ragazzi, leggete attentamente le avvertenze prima dell’uso.

Samuela Solinas