Nel 50° anniversario dalla scomparsa di Tullio Serafin, Rai5 dedica la mattina operistica domenicale all’Otello di Verdi, una pregiata edizione del 1958 realizzata con l’Orchestra e il Coro di Milano della Radiotelevisione italiana e interpretata dal tenore Mario Del Monaco.
Chiaramente non potevo perdermi l’avvenimento, per l’amore sviscerato che nutro per quest’opera e soprattutto per vedere ed ascoltare colui il quale è stato e sempre sarà per me l’unico ed intramontabile Otello: Mario Del Monaco. Tanti tenori hanno interpretato il ruolo ma nessuno mi ha mai convinto quanto lui; quella voce e quegli accenti, con tutti i loro pregi e difetti, sono stampati nella mia testa, impressi nel DNA e fanno parte della mia cultura musicale.
Verdi e Boito si sono avvicinati nuovamente a Shakespeare per crearne un capolavoro, con un libretto ed una musica tra le più belle mai realizzate.
Finita l’opera, molto intelligentemente Rai5 ha mandato in onda due speciali sul drammaturgo inglese, spiegandone i rapporti con l’Italia e la concezione dell’amore. Quanto narrato in questi reportages mi ha portato a riflettere ancora una volta sulla visione del sentimento amoroso che emerge nell’Otello.
Mentre in opere come Romeo e Giulietta, nonostante il finale tragico, l’amore vince sempre in Otello non è così. I due giovani veronesi si suicidano pur di rimanere insieme, convinti che il loro sentimento vincerà anche la morte, ma per il moro la situazione è ben diversa.
Un processo di evoluzione artistica, di disincanto e sfiducia portato dalla maturità dello scrittore spingono Shakespeare a rivalutare il proprio concetto di amore. Verdi alla sua penultima opera non poteva scegliere dramma più consono e profondo per esprimere anch’egli l’apice della propria arte.
In Otello l’amore è sconfitto. La tragedia del prode condottiero non è la gelosia, quell’idra fosca che si insinua nella sua mente e ne distrugge l’immagine dell’angelica Desdemona. In Otello ciò che è distrutto è l’Amore stesso, quello con la lettera maiuscola, l’Idea di un sentimento, nel senso più alto del termine. Questo lo porta ad uccidersi; la perdita di un ideale, del più grande ed il più importante, senza il quale non ha più senso vivere. Testimone di ciò è lo splendido declamato melodico
Dio! mi potevi scagliar tutti i mali
della miseria, ~ della vergogna,
far de’ miei baldi trofei trionfali
una maceria, ~ una menzogna…
E avrei portato la croce crudel
d’angoscie e d’onte
con calma fronte
e rassegnato al volere del ciel.
Ma, o pianto, o duol! m’han rapito il miraggio
dov’io, giulivo, ~ l’anima acquieto.
Spento è quel sol, quel sorriso, quel raggio
che mi fa vivo, ~ che mi fa lieto!
Tutto, o Dio, avrei potuto sopportare, la vergogna, la miseria, vedere tutti i miei trofei ridotti in cenere ed avrei sopportato questa croce con calma, rassegnandomi al volere del cielo. Ma, mi hanno portato via quel miraggio, quel luogo dove solo riuscivo a placare la mia anima. Perso questo, perso l’Amore, non riesco più a vivere.
Così si conclude uno dei più grandi capolavori del melodramma italiano, sotto l’ombra di una Natura maligna di leopardiana memoria.
Samuela Solinas