Quando si pensa all’Opera, i primi nomi che vengono in mente sono Verdi, Puccini, Rossini, Donizetti… grandissimi artisti legati indissolubilmente al mondo del belcanto, ma figli di un’eredità che pianta le sue radici diversi secoli prima.
Firenze, 1570. Il circolo culturale denominato “Camerata de’ Bardi” discute sul rapporto tra monodia e polifonia, portando lo sguardo indietro fino alla tragedia greca (V secolo a.C.); iniziano quindi una serie di esperimenti volti alla realizzazione di un nuovo tipo di spettacolo, capace di unire il canto a vicende legate alla classicità. Le attività della Camerata cessano nel 1585, ma il suo retaggio è raccolto nel 1600, sempre a Firenze, in occasione delle nozze di Enrico IV, re di Francia, e Maria de’ Medici. A Palazzo Pitti va in scena, davanti ad un pubblico, Euridice. Si tratta di un’opera molto diversa da quelle a cui siamo abituati, composta quasi esclusivamente dal recitativo (“il recitar cantando”), una via di mezzo tra il parlato e il cantato, realizzato rifacendosi all’idea che si aveva delle messinscene dell’antica Grecia.
Possiamo però parlare di Opera vera e propria soltanto dal 1607, quando a Mantova, alla Corte dei Gonzaga, va in scena l’Orfeo di Monteverdi. L’elemento principale è infatti la musica (e non il testo, come invece si pensava a Firenze nel 1600) e il libretto presenta una struttura ben precisa. La trama dello spettacolo, come quella del suo predecessore fiorentino, è ripresa dal mito classico di Orfeo ed Euridice: oltre a rappresentare un caso di sacrificio ed amore esemplare, la tragedia ovviava ad uno dei grandi problemi posti dagli studiosi di questo nuovo tipo di musica, quello della verosimiglianza. Come era infatti possibile che un personaggio cantasse dall’inizio alla fine, esprimendo tutti i suoi sentimenti attraverso la musica? Proprio per questo motivo la scelta cadde su Orfeo, colui che nella mitologia greca, grazie al suo canto e alla sua cetra, riusciva a controllare gli animali e la natura; un cantante in piena regola quindi, che non avrebbe destato alcun sospetto se avesse cantato per ore ed ore.
L’Orfeo appartiene a quella serie di opere definite “di corte”, messe in scena per volontà di un nobile davanti ad un pubblico colto, che poteva comprendere tutti i riferimenti letterari contenuti al suo interno. Leggendo il libretto dell’Orfeo, scritto da Striggio, non possiamo fare a meno di pensare alla tragedia classica sia per la struttura dell’opera (prologo e 5 atti) e alla poesia, per i continui rimandi alla letteratura latina e alla favola pastorale, riportata in auge da Tasso e ben conosciuta alla corte di Mantova. Non mancano inoltre riferimenti danteschi, nel momento in cui Orfeo scende negli Inferi per ritrovare l’amata Euridice.
La neonata Opera è quindi un genere molto lontano da quello che diventerà nei secoli successivi, sia per generi che per modalità di rappresentazione: dobbiamo aspettare infatti il 1637, a Venezia, per vedere in scena un’opera davanti ad un pubblico di spettatori paganti.
Elena Santoni