Storie di precari e nomadi innamorati d’arte

“Venezia è bella, ma non ci vivrei” diceva un detto popolare, soppesando la bellezza artistica della città e la difficoltà della vita quotidiana a causa della sua stessa natura poco pratica. Tristemente, la stessa frase si abbina perfettamente anche alla cultura. Fin da piccoli ci insegnano a perseguire i nostri sogni. E da lì tutto ha inizio: l’amore per la musica ci esorta a fare cose folli. Ci mettiamo in gioco, seguiamo le nostre passioni con il massimo impegno possibile, ci dedichiamo giorno dopo giorno allo studio e investiamo le nostre energie per raggiungere ciò che è irraggiungibile. Ci sentiamo privilegiati, una élite di fortunati che può trasformare la propria passione più grande in un lavoro. Ma siamo davvero così tanto fortunati?

Certo, la musica è ciò che per molti di noi si avvicina maggiormente al Bello Ideale, ci nutre e ci accompagna nella crescita quotidiana, ma a volte basta uno sguardo nella vita di un neodiplomato del conservatorio che la risposta a questa domanda si fa più dubbia. Se escludiamo una minuscola percentuale di ragazzi e ragazze particolarmente talentuosi che riescono a inserirsi in orchestre e realtà professionali in giovane età, la maggior parte di musicisti, cantanti, artisti ed esperti di musica rischia grosso. In particolare, la fascia d’età dei ventenni risulta drammaticamente abbandonata a una vita di precarietà e di quasi totale dipendenza economica dai genitori o terze parti.

 

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