Da quando ho acquistato casa sui colli piacentini, ho iniziato con piacere a frequentare il Comunale di Piacenza. Negli ultimi anni e grazie alle coproduzioni con i teatri di Modena e Reggio Emilia, ho potuto assistere a degli spettacoli di qualità, con allestimenti gradevoli ed artisti di importanza internazionale. Tutte le recite sono state salutate da un entusiasmo di pubblico notevole, con il teatro gremito all’inverosimile. Questo mi fa oltremodo piacere perché testimonia che con intelligenza si può dar vita, anche in provincia, ad iniziative culturali di enorme pregio ed artisticamente spesso migliori di quelle proposte dai tanto blasonati teatri principali.
Domenica 26 marzo mi sono quindi messa in macchina felice e speranzosa di trascorrere un bel pomeriggio a teatro, nella certezza che quelle poche ore immersa nel mio mondo mi avrebbero fatto un gran bene.
In programma la splendida opera di Bellini “I Puritani”, opera complessa da cantare e da interpretare. Tralascio volutamente la recensione dello spettacolo, perché voglio rendervi partecipi solamente della trasformazione che avviene ogni volta che le luci si spengono, il Maestro tiene sospesa la bacchetta per qualche secondo e dà l’attacco all’orchestra. Dalle prime note la riconosco, è lei, è l’opera che ho sentito in vinile od in CD tante volte, in differenti versioni; mi lascio accompagnare altrove, dimentica delle ultime tre settimane di inferno che ho passato, dimentica di quei giorni difficili che devono ancora venire.
Lo spettacolo è scenicamente ben concepito, intelligenti ed efficaci scene e costumi. Il regista si limita al rispetto della drammaturgia e del libretto lasciando che siano la musica ed il canto a parlare, portandoli ad essere il primo e quasi unico veicolo delle emozioni per il pubblico. La musica quando è ben scritta basta a se stessa.
L’aria del tenore “A te, o cara” mi commuove; non perché sia drammatica ma per il modo in cui è eseguita. Per chi non la conoscesse è semplicemente il saluto di Arturo alla sua amata Elvira, che gli è stata appena concessa in sposa. I due innamorati appartengono a famiglie rivali, e si tratta quindi di un istante particolarmente atteso ed insperato.
A te, o cara, amor talora
Mi guidò furtivo e in pianto;
Or mi guida a te d’accanto
fra la gioia e l’esultar.
Al brillar di sì bell’ora,
Se rammento il mio tormento
Si raddoppia il mio contento,
M’è più caro il palpitar.
È un momento di gioia, che Bellini rende con tutta la maestria e la bellezza delle sue note. Il tenore canta con una grazia ed una linea di canto invidiabile, perfettamente in stile con il personaggio, senza mai forzare. L’eleganza nel porgere le frasi, l’attenzione al sentimento celato dietro ogni parola. La melodia scorre come se l’artista non respirasse neanche, i suoi crescendo ed i diminuendo sono splendidi, i pianissimi cristallini si sentono distintamente fino su in alto, nel loggione dove sono appollaiata, e riempiono la sala. La prodezza: il suono smorzato sull’ultima parola “palpitar”. Un diminuendo che diventa così chiaro, diafano che sembra provenire da altrove per poi rimanere sospeso nell’aria, lasciandoci l’incertezza se sia svanito oppure no. La signora seduta di fronte a me si asciuga gli occhi; proprio lei, alla quale il marito raccontava la trama dell’opera prima dell’inizio dello spettacolo, lei che probabilmente era la prima volta che entrava in un teatro. È la Bellezza che commuove.
Note e testo scritti nel lontano 1834 che ancora oggi parlano ad ognuno di noi. Perché la natura dell’essere umano è sempre la stessa. E ad ogni recita quell’esperienza cambierà la vita di qualcuno. Come è successo a me quasi vent’anni fa ormai, come succederà a qualcuno di voi. È la magia all’opera.
Samuela Solinas