Oggi abbiamo il piacere di intervistare Barbara Staffolani, coreografa e regista di grande successo.

1. Cos’è per te l’Opera?

E’ una bellissima alchimia che mi sorprende sempre. E’ un’espressione artistica che mi è congeniale, mi coinvolge e mi appassiona, attraverso cui mi emoziono e voglio emozionare.
E’ la modalità grazie alla quale voglio creare valore, perchè è una forma d’arte totale che esemplifica quanto potenti e belle possano essere il canto, la musica, il teatro e a volte la danza, uniti nel raccontare le passioni umane.
Coinvolge i sensi, il cuore, il cervello, a volte ha un potere catartico. E’ quindi un magnifico caleidoscopio nel quale ognuno può trovare spunto di crescita ed elevazione.
Fruire uno spettacolo di opera lirica è a mio parere, una cosa che ogni persona dovrebbe fare una volta nella vita, anche solo per sentire l’energia che veicola dal palcoscenico alla platea grazie alle tante persone che dal vivo concorrono, ognuno con la propria professionalità e con il proprio sentire del momento, alla messa in scena di ogni recita che è unica ed irripetibile.

2. Quanto è importante la regia?

Hai presente quando mangi gli spaghetti alla carbonara in svariati posti ?
Ogni volta sono diversi. Eppure gli ingredienti sono gli stessi.
Si può tranquillamente affermare che lo chef stia alla pietanza come il regista sta allo spettacolo.
Ogni creativo, sia chef o regista è un visionario.
Parte dagli ingredienti fondamentali, che nel caso dell’opera lirica sono il libretto e la musica, per narrare la sua versione della vicenda.
Essa può essere ambientata anche in un contesto giustificato diverso da quello narrato, con caratteri e particolari accentuati rispetto ad altri.
Trovo che raccontare le medesime passioni con modalità diverse sia fondamentale per capirne la complessità e coglierne le sfumature, quindi; viva i registi che suggeriscono tagli diversi alla lettura della stessa opera, di qualunque genere essa sia.

3. Rendere reale, vera, un’opera oggi è molto importante. Questa necessità, tra le altre cose, la notiamo anche nelle regie, dove i cantanti hanno perso la loro “staticità” per diventare dei veri e propri attori; cosa ne pensi a riguardo?

Penso che come la vita è un moto perpetuo, tutto ciò che la rappresenta o tenta di farlo, debba esserlo conseguentemente. Attualizzare il linguaggio non verbale nell’opera lirica è fondamentale per non scomparire.
D’altra parte mi sembra che sia anche una cosa piuttosto naturale poichè ognuno è figlio del proprio tempo, e come lo sono i giovani che usano il computer con velocità di azione e reazione esponenziale, anche tutti coloro che gravitano nel mondo della lirica, dai registi, ai cantanti, alle masse artistiche e tecniche lo sono.
Inoltre un buon regista lirico sa quando e come ovviare a passaggi vocali particolarmente difficoltosi per un cantante lirico.
Fare le prove è fondamentale per sperimentare e trovare gli equilibri giusti per uno spettacolo che non trascuri nulla, risulti fluido (anche nei cambi di scena), godibile nella narrazione, e metta a proprio agio gli artisti e il pubblico.

4. Cosa pensi delle regie minimal?

Il genere minimal ultimamente è stato molto più un’esigenza dovuta alla mancanza di fondi per allestire spettacoli, che una scelta stilistica reale.
Per fare regia in maniera minimale bisogna essere veramente dei grandi maestri dell’animo umano e saper coinvolgere attraverso una recitazione che risponda pienamente ciò che la musica e le parole evocano. All’Operà di Losanna nel 2014 ho collaborato con Giancarlo Del Monaco, come assistente alla messa in scena di una Luisa Miller. C’erano solo cinque sedie nere e cinque verdi in scena e gli ho visto tirare fuori dagli artisti anche il più piccolo moto dell’animo attraverso la regia. C’era un grande equilibrio di pieni e vuoti, è stata una grande scuola che avevo già fatta mia da tempo visti i pochi mezzi con cui spesso ho allestito i miei spettacoli. Come sempre la difficoltà è un grande incentivo alla creatività.
Comunque in generale penso che la formula vincente sia trovare quel giusto equilibrio scenico che non sacrifichi la propria narrazione registica e non sia superfluamente ridondante come è accaduto in tempi non troppo lontani.

5. Nelle opere a cui ti dedichi hai spesso a che fare con i bambini, com’è lavorare con loro?

I bambini sono sempre una risorsa. Si stupiscono e giocano. Il loro stupore ti riporta a analizzarne la fonte e a volte a cogliere cose che avevi tralasciato. Il gioco ti fa scoprire quanto sei disponibile ad essere ancora bambino per coinvolgerli ed ottenere il massimo che possono darti, perchè loro sono disponibili sì, se trovi la chiave giusta.
Nella Carmen di Zeffirelli che ho ripreso più volte all’Arena di Verona c’è un importante intervento di coro bambini (Chœur des gamins) nel Primo atto. Mi sono sempre divertita ad osservare quanto fossero attenti anche gli uni con gli altri per arrivare a fare il massimo e in Butterfly alle ultime recite, l’inteprete di Dolore a cinque anni sapeva già quasi tutta l’opera a memoria e non faceva che ascoltarla, a dimostrazione che non è l’opera ad essere morta.

6. Quant’è differente fare una coreografia rispetto ad una regia?

Diciamo che la coreografia coadiuva la regia nella narrazione, nel senso che indica cosa la coreografia deve raccontare. Sta poi al coreografo utilizzare il movimento coreografico che ritiene più consono, per assolvere al compito assegnato. Sono entrambi due lavori molto creativi di cui l’uno è il sottoinsieme dell’altro e che sinergicamente concorrono alla riuscita dello spettacolo.

7. Come si deve muovere un giovane che vuole fare coreografie o regie a livello teatrale?

Per prima cosa deve studiare e fare esperienza. Anche a livello amatoriale.
Il teatro è una palestra che va frequentata il più possibile per capirne meccanismi e ritmi.
Oggi esistono anche delle scuole che preparano danzatori e registi. Sicuramente la scuola non è garanzia di riuscita, insegna un metodo. Poi è molto formativo il saggiare la propria sensibilità e capacità in palcoscenico, progettando i propri lavori sia registici che coreografici e trovando il modo di metterli in scena anche con pochi mezzi.
Inoltre avere l’opportunità di crescere accanto ad un regista e vederne diversi a lavoro è sicuramente molto importante e istruttivo.

8. La danza è il tuo primo amore, come ti ha portato all’Opera?

Sono approdata all’Arena Sferisterio di Macerata come coreografa grazie alla lungimiranza dell’allora Sovrintendente Claudio Orazi e del regista Renzo Giacchieri che volevano sfruttare le risorse del territorio per un Elisir d’amore nel 1994.
Non finirò mai di ringraziarli per questo.
In quel periodo ero molto conosciuta nella mia zona per il lavoro che svolgevo con la mia Scuola di danza. La collaborazione nell’Elisir ebbe molto successo. Lo spettacolo fu ripreso due anni dopo e il Maestro Giacchieri mi chiese di fargli da coreografa anche per il Nabucco, che allestì sempre allo Sferisterio nel ‘97 e poi ad Avanches l’anno dopo, dove iniziai a fare da assistente regista. In seguito nel 2000, grazie a questa collaborazione, fui chiamata all’Arena di Verona come Aiuto regista e lì ho lavorato per 16 anni.

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9. Qual è il momento che preferisci dello spettacolo? L’inizio, la fine, il dietro le quinte?

L’adrenalina che precede una recita, soprattutto se si tratta di un debutto, è sicuramente la sensazione più viva per me e… adoro essere dietro le quinte, per dare l’ultimo suggerimento al cantante o alla corifea e per porre riparo ad eventuali imprevisti.
Mi ricordo un Trovatore in cui un famoso cantante poco prima della Pira ebbe un malore che poi si risolse al meglio. In quei momenti è fondamentale anche esserci umanamente. A volte il comprendere la situazione tempestivamente e agire anche con una parola di conforto può fare miracoli.

10. L’Opera oggi sta cambiando, come secondo te?

L’opera è in una fase di rielaborazione e vive alcune contraddizioni in questo momento. In Cina e in Australia dove ho avuto l’occasione di lavorare, per esempio è molto seguita. Rappresenta da una parte il nuovo e dall’altra le radici culturali che il popolo vuole crearsi.
In Italia si creano eventi mondiali come l’apertura della stagione lirica al Teatro la Scala e poi non se ne parla più a tali livelli per un intero anno.
Da questo si evince un interesse modesto che si traduce in mancanza di mezzi per l’opera lirica.
Da qui la necessità di proporsi con format a volte differenti, l’ingresso di registi di prosa nella lirica, la necessità di cooprodurre a tutti i costi, di mettere in scena riprese a volte viste e riviste e di allestire sempre con tempi molto brevi.
Parallelamente alcuni teatri fanno l’ammirevole sforzo di educare ed avvicinare i ragazzi all’opera e di produrre nonostante tutto, anche situazioni off in cui ci sia un assaggio di cosa sia l’opera lirica. Ecco, quest’ultimo è il cambiamento che apprezzo e che deve diventare sempre più sostanziale.
Ci vorrebbe una scelta forte di investimento verso la cultura che nel nostro paese stenta ad esserci e che auspico fortemente.

11. Perché consigliare ad un ragazzo di andare a teatro? E soprattutto all’Opera?

La scatola nera del teatro regala emozioni e riflessioni come nessun altra esperienza e ribadisco l’unicità di ogni serata.
Se poi si tratta di opera lirica il tutto si amplifica per la compresenza di tutte le arti e lo spessore della loro espressione. In altri termini: Opera is life!!

Ringraziamo Barbara per averci concesso questa intervista. E’ un piacere ritrovare amiche lontane.

Alessandra Gambino