Avrebbe voluto fare il medico, ma quasi inconsapevolmente si è ritrovato nella dimensione della sala prove ad allestire balletti su artisti, esteti e sesso. Tutto è iniziato con la ginnastica artistica, ma il legame quotidiano tra plié e ronds de jambe alla sbarra ha avuto la meglio. Avremo probabilmente perso un ginnasta, ma – fra le altre cose – è stato uno fra i pochi italiani ad aver proposto al Joyce Theater di New York un linguaggio completamente innovativo, il cui lavoro è stato apprezzato e contestato dai critici più autorevoli del mondo come Irène Lidova e Anna Kisselgoff.

 

Matteo Levaggi è, ad oggi, uno dei maggiori contributori della danza d’autore italiana. Coreografo eclettico, con una duttilità estetica ben evidente, ha saputo scuotere la scena italiana degli ultimi vent’anni inserendo quello che è il proprio gusto all’interno del sistema del balletto contemporaneo. Dopo la formazione avvenuta presso la Scuola Cosi-Stefanescu di Reggio Emilia prima e quella torinese di Loredana Furno poi, abbandona momentaneamente il teatro per dedicarsi all’esperienza della televisione: infatti, notato da Raffaella Carrà, sarà al suo fianco in un’edizione di “Carràmba che Fortuna”.

Ma dovrà accorgersi che è il teatro la sua vera vocazione: darà vita per circa quindici anni come coreografo principale, numerose creazioni autoriali per la compagnia Balletto Teatro di Torino, una vera e propria fucina – quasi una Factory warholiana – per il proprio repertorio di produzioni. Di qui avrà la possibilità di presentare i suoi lavori in tutto il mondo, da Miami alla Biennale di Venezia. Negli ultimi anni, consolidato anche l’aspetto performativo insieme all’artista visiva Samantha Stella, si dedica – parallelamente alla corografia – anche a progetti mirati ai giovani talenti. Dal 2022, sotto invito del direttore Frédéric Olivieri, è docente e coreografo del nuovo corso di perfezionamento indetto dall’Accademia del Teatro alla Scala di Milano.

 

Chiavari, Genova, 1990. Avevi fatto un patto con Madonna?

Lo è stato per tutti: un patto sociale. A Chiavari, la mia città, c’era un poster di Express Yourself patinato di bianco, che annunciava le date del Blond Ambition di Madonna, il suo primo tour mondiale. Questa ondata di effervescenza nella pace di una piccola città ligure, mi dava la possibilità di capirmi sotto molti aspetti della vita, compresa la mia posizione sociale da un punto di vista sessuale. Questo concerto, come si sa, parlava appunto di peccato e redenzione. All’epoca, per imitazione, andavo in giro con bomber e crocifissi, in spiaggia utilizzavo asciugamani rigorosamente bianchi e cercavo i primi capi della linea Dolce&Gabbana, di cui Madonna stessa parlava nel docu-film “A letto con Madonna”.

Così, tre anni dopo, a livello amatoriale con un gruppo di carissimi amici che frequento ancora oggi, ho ricreato con scenografie e costumi quel concerto. Fu un punto molto particolare: non venni criticato e molte persone mi sostennero, addirittura l’assessorato mi conferì una targa.

Dopo l’esperienza avvenuta qualche anno prima alla Scuola Cosi-Stefanescu di Reggio Emilia, avevo deciso di entrare a Torino alla Scuola di Loredana Furno, che avevo incontrato durante uno stage estivo a Finale Ligure.

 

Ma eri consapevole della danza d’autore in Italia?

Sapevo molto poco all’epoca; nel panorama italiano, dovevo confrontarmi con una compagnia come il Balletto di Toscana e con autori figli dell’arte di Carolyn Carlson. Ovviamente, ero ben consapevole della storia della danza di una città come Torino, che ha visto protagoniste grandi donne come Bella Hutter e Susanna Egri, oltre al grande circuito di festival – nasceva TorinoDanza -.

 

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