Cari lettori, vi siete mai chiesti se esista un’opera in cui un elemento naturale sia componente essenziale per comprendere appieno il contesto in cui si svolge la trama ed esso stesso è assimilabile quasi ad un personaggio della vicenda? Ebbene, come potete immaginare la risposta è sì.

Vi sto parlando di un’opera pressoché sconosciuta, o comunque rappresentata di rado. È l’opera simbolista, e non verista come gran parte degli altri suoi lavori, “Iris” di Pietro Mascagni su libretto di Luigi Illica. Nel 1896 Illica propose un’opera giapponese a Mascagni per dare una risposta italiana al simbolismo e al gusto per l’esotico crescente nella cultura europea. Mascagni accolse il progetto «con entusiasmo che non ha l’eguale» e si mise a studiare «il tipo armonico giapponese» percorso che porterà all’uso del gong o della scala esatonale.

La trama è presto detta: Iris, un’ingenua figlia di un vecchio cieco, vive lieta godendo delle semplici cose della natura, ma involontariamente attira su di sé le attenzioni di Osaka, un bieco nobile. Invaghitosi della ragazza, Osaka la rapisce tramite un teatrino di pupi che la incantano. Iris viene condotta a Yoshiwara, luogo di perdizione, mentre crede ancora di sognare, o di trovarsi in paradiso; Osaka cerca di sedurla, ma riesce solo a terrorizzare la fanciulla. Stanco e infastidito della semplicità di Iris, Osaka la lascia in balìa di Kyoto, che la espone nella casa di piacere. Raggiunta e maledetta dal padre che non sa del rapimento, Iris si getta, per la vergogna, in un baratro. La ragazza muore sotto il bacio del sole, che trasforma il suo corpo nel fiore che ha il suo nome.

 

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