Affrontiamo un tema particolare oggi, non tanto per l’effettiva complessità e varietà di linguaggio che la caratterizza, quanto perché è la prima cosa verso la quale la nostra attenzione viene catturata all’inizio di una qualsiasi opera: l’Ouverture.
Come nasce e cos’è difatti? È una composizione posta all’inizio di un’opera lirica appunto o un oratorio, una cantata, un balletto.
Dobbiamo partire dalla Francia e da Jean Baptiste Lully: il suo schema della cosiddetta “ouverture alla francese” verrà impiegata in tutto il periodo barocco, sia da Bach che da Haendel: essa è costituita da un’introduzione lenta seguita da un vivace movimento in stile fugato. La lenta introduzione veniva sempre ripetuta e, qualche volta, il movimento veloce era seguito dal ritorno del tempo lento iniziale con la stessa linea melodica. Le ouverture francesi poste all’inizio delle opere invece, erano spesso seguite da una serie di danze prima dell’effettivo inizio della recita stessa: abbiamo già analizzato quanto l’elemento della danza fosse sempre stato fondamentale nel teatro di questa nazione.
Con l’avvento della forma sonata invece, questo modello risultò superato e inadatto: Mozart scrive ouverture in questo stile, costituite da un movimento veloce (con o senza una introduzione lenta) senza ripetizioni e frequentemente senza una sezione di sviluppo.
Doveroso un cenno a Ludwig van Beethoven che per la sua opera, il Fidelio, ne compose ben quattro: la quarta versione (scritta nel 1814), sarà quella definitiva; le altre sono denominate “Leonora no.1”, “Leonora no.2” e “Leonora no.3“. Quest’ultima (scritta per la rappresentazione del 1806) invece, viene eseguita nel cambio di scena del secondo atto grazie all’usanza introdotta da Gustav Mahler.
Se da una parte abbiamo Gioachino Rossini con le sue ouverture vivaci, briose e ritmicamente energiche, dall’altra abbiamo il costante impiego del “leitmotiv”: Richard Wagner è il primo compositore più specificamente associato a questo concetto, sebbene lo stesso sia già presente in compositori a lui precedenti e contemporanei come Carl Maria von Weber, Giuseppe Verdi o Hector Berlioz (ne troviamo anche in Monteverdi o in Gluck per quanto riguarda esempi più arcaici).
Questo termine significa letteralmente “motivo principale“, o forse più precisamente, “motivo guida“: in particolare dovrebbe essere chiaramente identificato nell’Ouverture in modo da conservare la sua identità ed essere successivamente riconosciuto durante l’opera. Ne “La Forza del Destino” di Giuseppe Verdi, il tema di apertura dell’ouverture ricorre ogni volta che Leonora si sente in colpa o ha paura. Nel Trovatore, il tema della prima aria di Azucena si ripete ogni volta che viene invocato l’orrore di come sua madre è stata bruciata viva e dell’atroce vicenda che ne delinea il dramma.
Nella splendida Ouverture del Tannhauser di Wagner compare la rappresentazione simbolica di vari temi: la Salvezza, il primo, più lento e spirituale al quale si contrappone quello della Vita, più irruente e carico di energia. Dopo un ritorno dei motivi insistenti del Venusberg (il monte leggendario della Germania medioevale), questi dovranno cedere il passo ancora una volta al tema religioso dei pellegrini, simbolo della grazia cristiana e della Salvezza che opera al di là di una duplice morte: quella di Elisabetta, la giovane vergine innamorata di Tannhauser, e quella dell’eroe stesso.
Per Debussy invece, il leitmotiv deve avere una funzione di pura reminiscenza, simbolica, non di semplice esplicazione: in “Pélleas et Mélisande” i temi riappaiono anche trasformati, frammentati, e persino un intervallo isolato si può caricare di funzioni evocative.
Lavinia Soncini