Cenerentola, ossia la Bontà in trionfo fu l’opera con la quale Rossini diede definitivamente addio al genere buffo (se escludiamo i due soli casi di Adina nel 1818 e de Le Comte Ory nel 1828). Con questa grande, minuta opera (in due atti come di consuetudine per il genere) il “cigno di Pesaro” creò quello che forse è il suo vero capolavoro del genere buffo. Tutto fin da quando il sipario si alza è un continuo conflitto di situazioni (basti pensare al forte contrasto nella prima scena del primo atto che vede contrapposta la nostalgica canzone di Angelina «Una volta c’era un Re!» alle isteriche e stridule grida gracchianti di Clorinda e Tisbe in «Cenerentola, finiscila con la solita canzone»). Le due sorellastre sarebbero più vicine all’estetica dell’opera buffa napoletana, così caricaturali nelle loro linee vocali come nel loro aspetto, esempi perfettamente rappresentativi della donna capricciosa ed insopportabile. Di contro la figura di Angelina si prefigura come portatrice di una forza morale che sarà alla base del teatro Romantico italiano. Analizziamo un momento l’opera confrontandola con l’omonima ed originaria fiaba. Sappiamo, per sue stesse definizioni, che Rossini non era così incline verso il mondo del fantastico e del fiabesco, ma c’è stato qualcosa in questa storia che ha attirato la sua attenzione al punto da farlo ricredere sull’argomento. Teorici e “pratici” del romanticismo elevarono quello stesso genere fiabesco ad una dignità quasi divina, donata all’uomo da uno sconosciuto Dio per darci la possibilità di liberarci dalle catene delle verità logiche e dall’angustia della razionalità. La fiaba originale sembra risalisse al 1544, ma la versione alla quale il Ferretti si riferì è quella del francese Perrault.

 

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