Nella fase compositiva di Verdi che va dalla “Giovanna d’Arco” (1845) a “La Traviata” (1853) notiamo una maggior propensione verso un’analisi introspettiva dei vari protagonisti che affollano le sue opere. È il periodo in cui l’ago della bilancia creativa di Verdi pende verso quei drammi che si concentrano su un unico grande personaggio, attorno al quale ruotano una serie di figure che, in alcuni casi, ne definiscono il destino. Ognuna di queste figure è caratterizzata da un sentimento diverso. Tra queste figure ve n’è una in particolare che è guidata quasi esclusivamente, se non totalmente, da un impulso vendicativo che esplode in maniera eclatante sul palcoscenico. Mi riferisco ovviamente ad Azucena, la gitana de “Il Trovatore”, opera andata in scena nel 1853 al Teatro Apollo di Roma. Per lo stesso Verdi questa donna aveva un’importanza fondamentale, al punto da preferirla all’altra primadonna (Leonora). La vecchia zingara è mossa da un logorante desiderio di vendetta, che arde dentro di lei e che logora il suo animo da quando la madre venne arsa viva sul rogo rea di stregoneria, ben vent’anni prima che la storia raccontata da Verdi avesse inizio. Allo stesso tempo possiamo osservare in Azucena un amore materno dilaniato dal continuo scontro fra una tenerezza obliata, quasi mai espressa («qual per esso provo amore madre in terra non provò!») ed il suo lato dominante («ferma… son’io che parlo a te”»). Il carattere di Azucena aveva probabilmente affascinato Verdi fin da subito e mi verrebbe da pensare che si sia deciso a trasformarlo in un’opera proprio grazie alla parte che ella ha nello sviluppo e nello scioglimento del dramma. Giuseppe Verdi sembra vivere questo personaggio in maniera del tutto diversa rispetto a tutti quelli che finora aveva fatto vivere nelle sue opere. Azucena ha una chiaroscurale plasticità scultorea che la renderà progenitrice di una schiera di ruoli femminili considerati non comprimari ma con un vigore non inferiore a quello assegnato alle loro “superiori”.

 

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