Negli ultimi anni, e negli ultimi mesi con più frequenza, sarà capitato a chiunque di assistere all’acceso dibattito sulla questione della terminologia femminile/maschile.
Personalmente l’ho trovata molte volte una polemica sterile, soprattutto quando, come nel caso di Beatrice Venezi, uno non abbia la possibilità di decidere serenamente se declinare il proprio mestiere al maschile o al femminile. Io che scrivo sono una donna e non mi dà fastidio se declinano la mia professione al maschile. Questioni di scelte, ma penso che vadano rispettati entrambi i punti di vista. Non sono per l’imposizione di un punto di vista più “giusto”, come non sono per l’imposizione da parte di altre donne del “dato che siamo tutte donne allora dobbiamo…”. No, prima di essere donne, a parer mio, siamo tutte persone e bisogna lasciare a tutti il diritto di scegliere. Io, Beatrice e Giorgia (Meloni, ndr) possiamo scegliere se declinare il nostro mestiere al maschile senza che nessuno si senta in diritto di evangelizzarci sul contrario. In fondo il primo fondamento del femminismo non è la libertà di scelta? Ecco, lasciateci scegliere.
E, se parliamo di scelte, mi vien da pensare però ad un caso in cui la scelta non c’è. Nel campo dell’opera lirica si cela, e neanche troppo, un caso particolare e che merita attenzione. Sto parlando delle vocalità femminili che hanno un nome maschile.